Francesco Giavazzi, nell'articolo "Famiglia, le virtù e i costi (alti) del Welfare all'italiana", chiede alle donne del Belpaese di illustrargli perché accettano di sopportare un peso così sproporzionato: le donne cioè non rientrerebbero nel mondo produttivo, non per la cronica mancanza di asili nido, ma per colpa loro. Insomma, c'è un po' di Dna patriarcale ed Eva contro Eva in questo interrogativo: a remare contro le donne sono le donne stesse: è una sub-cultura che le tiene attaccate al focolare, ad accudire bimbi, anziani e genitori. Ma è proprio così?
Partiamo dall'uso della parola "colpa", innanzitutto. Sa tanto di mela da non cogliere e di cacciata dal Paradiso terrestre. In fondo, se non funziona qualcosa nella società, cherchez la femme. Facile, no? L'uso dell'espressione ha l'amaro retrogusto dello scaricabarile: se certi comportamenti non si impongono nella società, è responsabilità di chi non protesta, ma vota turandosi il naso. E' come se alle donne andasse, in fondo, bene così. Ma certi cambiamenti dovrebbero essere priorità di tutti! E non solo delle donne: qui va chiesta la rottura culturale degli uomini stessi. Una cesura col passato, chiara e netta .
Sono gli uomini a doversi interrogare per primi, dopo millenni di patriarcato entrato nel Dna, su quante rinunce abbiano fatto nella loro vita per "spezzare il circolo vizioso" (Susanna Camusso): quanti uomini hanno rinunciato a qualcosa nella loro professione, per consentire alle donne di non uscire dal mondo del lavoro o per aiutarle ad averne uno proprio? Il coming out deve essere maschile. Innanzitutto.
Quanti uomini hanno calcolato quanto lavoro domestico delle donne abbia agevolato la loro vita professionale e pubblica?
Capitolo asili-nido parcheggio: ma siamo sicuri che le donne non preferiscano il tele-lavoro (anche temporaneo) oppure dei voucher o forme di de-tassazione piuttosto che parcheggiare i figli in asili nido? Secondo la filosofia steineriana, i bambini fino a 3 anni non sono pronti per la socializzazione scolastica (lo dicono anche tanti Primari di Pediatria). Numerose donne vorrebbero avere 3 anni di flessibilità oppure di tele-lavoro (od altro) per accompagnare, dolcemente, i loro bambini alla scuola dell'infanzia, senza perdere il lavoro (e lo stipendio). Ma, poi, una volta inseriti i bimbi nella scuola, preferirebbero trovare asili dell'infanzia con orari non rigidi e burocratici, bensì elastici: negli Usa esistono asili che aprono alle 6 di mattina e, in teoria, chiudono alle 19 di sera: non per imporre orari da caserma a "piccoli soldatini", ma per consentire alle mamme lavoratrici orari flessibili (non tutte lavorano timbrando il cartellino; gli orari fissi non si conciliano con la flessibilità degli orari e dei turni di tante professioni attuali). Mamme felici e professionalmente realizzate, sono mamme migliori: lo dice anche Michelle Obama.
Capitolo maternità. La materinità oggi è un lusso per le precarie: chi scrive ha lavorato fino al giorno prima del parto e ricominciato a scrivere al compimento del terzo mese del figlio. Senza consumare un euro di Welfare. Ma con l'incubo che, per tre mesi "persi" (e 12 mesi di felicissimo allattamento!), potesse perdere non tanto il lavoro, quanto per esempio la possibilità di iscriversi all'Albo Giornalisti Pubblicisti (che richiede 24 mesi di pubblicazioni in continuità).
Quante precarie rinunciano alla maternità per evitare simili dilemmi? Quante aspettano di fare un figlio allo scadere dell'orologio biologico (compromettendo la propria possibilità di diventare mamme, per il decrescere della fertilità), a causa dell'insicurezza e dell'assenza di tutele?
Le garanzie de facto possono paralizzare "in privilegi alcuni lavori" e lasciare fuori per sempre "chi si allontana per qualche anno"? (Selma Dall'Olio).
Infine, le quote rosa: chiamate così, hanno il sapore della sconfitta. Della riserva per salvare i Panda dall'estinzione (con tutto il rispetto per i Panda!). La sociologa Chiara Saraceno allora ribalta la frittata: "Si tratta da parte degli uomini di cedere il loro monopolio del potere, (...) perché le donne sono lontane dai posti di decisione, dai bilanci".
Ma gli uomini sono disposti a cedere il timone?
E le donne, invece, sono disposte a impegnarsi in battaglie civili "di lunga durata ed esito incerto" invece di continuare ad arrabattarsi, a cercare espedienti e a volte abbassarsi a compromessi che le umiliano o che creano alienazione e frustrazione?
Insomma, tutto questo per dire: se vogliamo porre sul tavolo una riscrittura del Welfare, facciamolo dopo aver sondato tutta la questione femminile, e non soltanto alcuni aspetti, sfaccettature magari più mediatiche e appariscenti. Cambiare una società è difficile, si sa: ma è possibile solo nel quadro di una franco dibattito culturale, che investa l'intera società: uomini compresi. Oggi, a pesare, è soprattutto la divisione fra lavoratrici di serie A (privilegiate, ma neanche troppo! anzi poco!, ma interamente protette dal Welfare) e lavoratrici di serie B (che non possono ammalarsi, che non fruiscono di giorni di malattia se non teorici, che non godono del diritto alla maternità, ma a cui vanno soltanto le "briciole del Welfare").
Questo è il vero nodo: il resto sono sofismi, anche non banali ed interessanti, ma che non arrivano al fondo della questione.
Oggi tutti citano Darwin: «Tutti gli esseri viventi sono esposti a una forte competizione», «Quanto più nascono individui in grado di sopravvivere, tanto più deve esserci una lotta per l'esistenza», «Ogni essere vivente deve lottare per la propria vita e sopportare una grave distruzione. I più forti, i più sani e i più felici sopravvivono e si moltiplicano».
Ecco, se il darwinismo è vero per gli uomini, per le donne, è ancora più vero. La nostra è una pura lotta darwiniana per la sopravvivenza nel mondo del lavoro e nella società. Che fare?
Mirella Castigli
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