venerdì 22 dicembre 2017

La lezione della disfatta di Rajoy in Catalogna

Il debito pubblico italiano è considerato il peggiore d'Europa dopo la Grecia (ci battono anche Portogallo, Spagna, Cipro). Le ricette economiche della Troika hanno fatto bene ai conti dei Paesi aiutati. Ma Rajoy, pupillo della cancelliera Merkel, ha perso la sua scommessa: la disfatta in Catalogna ha conseguenze tutte da decifrare (ma assomiglia alla fine di Cameron in UK, del referendum del 4 dicembre di Renzi e pure alla cocente sconfitta di Clinton negli USA).


Non è un caso che l'Italia si avvii ad elezioni con programmi elettorali fatti di tanto mirabolanti, quanto irrealizzabili promesse. Tutti temono di sembrare come Rajoy: bilancio in nero, urne vuote. La fuga nella demagogia, in stile Trump, farà scuola. Anche se la riforma fiscale di Trump - che butterebbe fuori mercato le aziende a scarsa produttività e competitività - potrebbe diventare la più succulenta occasione storica per obbligare i Paesi più recalcitranti d'Europa - come l'Italia - a liberalizzare. Forse non tutta la demagogia vien per nuocere?

@CastigliMirella

giovedì 7 dicembre 2017

Trump spariglia le carte come un giocatore di Poker senza un domani

La presidenza Trump ha un'unica caratteristica, che però si riverbera in ogni campo: sparigliare le carte. Rottamare tutto. Asfaltare tutti gli status quo. In una parola: fare politica (o bene bene o male male). Succede dalla'imposizione di Gerusalemme come capitale d'Israele alla riforma fiscale. Non stupisce, dunque, che sotto la sua presidenza, vediamo fenomeni ad alto tasso di disruption. O che i Bitcoin passino da mille a 15 mila dollari nel volgere di pochi mesi. E anche qui: o bene bene o male male. Il suo ruolo è quello di un uomo che gioca a #poker e che fa scommesse. No, non è una Presidenza per cuori deboli. No, l'America non è un Paese per vecchi (i Paesi gerontocratici, doe al massimo si fa un tressette, sono l'Italia, la Germania, il Vecchio Continente).

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@CastigliMirella

venerdì 6 ottobre 2017

VIDEO: La Catalogna, le Piccole Patrie e la lezione della Brexit

La crisi in Catalogna ha nomi e cognomi: la bolla immobiliare negli anni di Zapatero; la Troika che ha imposto alla Spagna di salvare le Banche (in crisi a causa della bolla immobiliare) attraverso il programma di assistenza finanziaria dell'Esm, il fondo salva-Stati dell'Ue, provocando l'esplosione del debito iberico e della disoccupazione (soprattutto giovanile, ricordate gli Indignados in piazza?); una lunga crisi istituzionale, tuttora irrisolta, durante lla quale la Spagna rimase senza governo per quasi un anno, per poi ricorrere a due elezioni in sei mesi (da cui è nato il debole governo Rajoy: il Premier è il garante dell'Esm, di fatto).

Quando il governo Rajoy ha dovuto tirare la cinghia, a pagarne le spese è stata Barcellona, che ogni anno gira il 19% del PIL alla sua Capitale (8 miliardi di euro). Quando la Catalogna si è vista negare l'autonomia fiscale in stile Paesi Baschi, ha covato la vendetta, tremenda vendetta. La Catalogna ha indetto un Referendum, illegale per la Costituzione spagnola. Carles Puigdemont è accusato di agire al di fuori della legge spagnola. Anche il primo ministro spagnolo Mariano Rajoy ha preso decisioni – e numerose non decisioni – giudicate all'unanimità (o quasi) disastrose, anche da parte degli esponenti della sua parte politica. La Guardia Civil ha fatto il resto. Il patatrac finale è giunto dal video messaggio del Re Felipe VI che, arrivato in ritardo dopo giorni di silenzio, è sembrato un esponente del Partito Popolare e non il monarca di tutti gli spagnoli. Più che un Borbone sembrava uno degli ultimi Romanov.

Ieri la Corte costituzionale spagnola ha vietato la seduta che si sarebbe dovuta tenere lunedì 9 ottobre e nel corso della quale Puigdemont avrebbe dovuto riferire sulle conseguenze del referendum del primo ottobre. Referendum illegale che, sotto i manganelli della Guardia Civil, ha visto una partecipazione poco sopra il 40%, con una vittoria schiacciante dei secessionisti al 90%. Barcellona è una città filo-europeista e non euro-scettica: la sua non vorrebbe essere una Brexit in salsa catalana, ma "solo" una secessione da Madrid.

Barcellona è diventata ricca da quando è entrata nella Comunità europea, attirando i fondi UE per le regioni depresse, i capitali tedeschi dell'Automotive e diventando la città più gettonata dagli studenti Erasmus e nuova capitale del turismo globale nell'era di AirBnB. Ma la secessione della Catalogna significherebbe l'uscita di Barcellona dalla UE, perché l'Unione europea si basa su trattati bilaterali fra Stati. Dunque, nella UE rimarrebbe Madrid e la Spagna, fuori Barcellona con la Catalogna, che rischiano anche l'uscita dall'Eurozona (e l'euro non prevede una exit strategy, dunque sarebbe un'incognita da brividi).

Adesso che succede? Banco Sabadell, la Caixa (le principali banche catalane), Gas Natural di fatto annunciano l'addio alla Catalogna in caso di secessione, anche Seat pensa al trasferimento. La gallina dalle uova d'oro perderebbe il suo tocco magico? La balcanizzazione dell'Europa in Piccole Patrie fa tremare il business: come nella Brexit le banche d'affari (Goldman Sachs e Morgan Stanley) guardano a Francoforte, dando una scossa a Londra, anche nel caso della Catalogna sono le aziende a fare i bagagli. Tutte le grandi aziende preferiscono stare dentro l'Eurozona, sotto lo scudo del QE di Draghi (finché dura). (Per la cronaca la Brexit sta costando troppo cara perfino al Regno Unito: Mercato immobiliare (-20%), mercato auto (-10%), costo della vita per i beni primari esplosa (era già cara in precedenza), finanza che si prepara a lasciare, PIL che cresce meno del previsto e meno di prima, costo degli studi in aumento (fino a 3 volte le rette universitarie), sterlina in picchiata (-30%) con effetto sui prezzi dei beni importati.

In conclusione, forse aveva ragione Giolitti. Alle conferenze internazionali il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti si toglieva sempre il cappello con deferenza ad ogni incontro con l’ambasciatore di Madrid. Un membro del suo seguito gli domandò i motivi di tanta ossequiosità: «Perché gli spagnoli ci evitano di essere considerati gli ultimi in Europa», rispose. Una battuta ottocentesca che appare più attuale che mai: l'Italia ringrazi la Spagna se sembriamo migliori di quanto non siamo.

@CastigliMirella

venerdì 9 giugno 2017

Corbyn è il nuovo Tsipras?

I cuori infranti di sinistra se lo ricordano ancora il film di Sabina Guzzanti. Il modello Zapatero è durato alcuni anni: venne travolto dallo scoppio della bolla immobiliare che aveva lui stesso pompato. L'infatuazione per Tsipras deflagrò un minuto dopo la vittoria al Referendum contro la Troika: il giovane no global dagli occhi di cerbiatto dovette inginocchiarsi ai creditori come davanti a un satrapo ai tempi dell'impero achemenide, quello dei Sasanidi e alcuni regni ellenistici. La passione per Chávez ebbe vita più lunga, ma l'avvento del delegittimato Maduro ha bruciato molte illusioni: i frigoriferi vuoti dei venezuelani e i morti in piazza delle ultime settimane hanno aperto gli occhi anche ai più tenaci sostenitori del socialismo sudamericano. Dobbiamo ricordarvi l'innamoramento per il brasiliano Lula? Lo scandalo corruzione, che ha travolto Rousseff, ha lasciato il segno. Ora la sinistra-sempre-in-cerca-di-un-Papa-straniero guarda con invidia a Corbyn: caro Jeremy, tocca ferro! Come minimo, D'Alema-Speranza-e-soci portano sfiga. (Il dubbio è lecito).

PS: Se D'Alema sta per fingersi novello Corbyn, ditegli che il capo dei laburisti non avrebbe mai trasformato Downing Street in una merchant bank. Quindi, ci risparmi funambolici parallelismi. (Analogo avviso per Bertinotti: no, Corbyn non avrebbe mai ricevuto eredità da "arbiter elegantiarum che si destreggiavano fra alta finanza, case reali, jet set").

@CastigliMirella

UK in salsa spaghetti. Grazie Theresa!

Volevano la Brexit, invece si beccano il Penta Partito in versione UK. Dopo un paio di scommesse perse (prima la Brexit, poi le elezioni anticipate), per i Tories si profila un governo a due con gli unionisti nord irlandesi che, nei numeri, sembra l'ultimo governo Prodi; nei fatti, uno SpaghettiGov appeso a un filo. Oggi Theresa May propone un governo che è l'opposto delle promesse e delle premesse ("strong and stable"? Now it seems so weak!), mentre Corbyn blinda il partito su istanze neo-keynesiane. La Brexit è già costata cara, per il resto c'è Bruxelles. (Merkel e Macron aspettano, si risparmieranno risolini in pubblico, ma anche no).

@CastigliMirella

mercoledì 17 maggio 2017

Quinto Capitolo (II prequel). L'epopea di Cesare Geronzi

Quinto Capitolo (II prequel). Ma come può un Paese appartenente al G7, seconda manifattura d'Europa, terzo Paese per importanza dopo l'asse franco-tedesco, uno dei tre Paesi fondatori dell'Europa unita, ad essere finito nel vortice delle banche senza neanche accorgersene, anzi sostenendo la "solidità" del sistema bancario? A leggere la stampa di questi ultimi anni, tutto sembra risalire agli scandali Mps - alle quattro banche e alle banche venete. Ma, come abbiamo già scritto nel Quarto Capitolo (I prequel), tutti questi casi rappresentano il culmine di una stagione "spericolata"e "spregiudicata" che ha perfino portato in carcere Antonio Fazio (per reati gravissimi nel caso Antonveneta e nel caso Bnl), non un banchiere qualsiasi, bensì "l'ultimo governatore della Lira", come titolò Il Sole 24 Ore. La Banca d'Italia, che era sempre stata la riserva di "grand commis de l'Etat", non veniva sfiorata da uno scandalo qualsiasi, ma gettata nel tritacarne giudiziario e mediatico da fatti gravissimi commessi a livelli apicali: sembra che ce ne siamo dimenticati, tutti presi dai casi recenti (ma, per quanto seri, pur sempre casi di provincia), ma fino ad Antonio Fazio la carica di governatore era a vita, invece, dopo il suo addio e le sue condanne, il mandato di governatore di Banca d'Italia è stato ridotto a sei anni, rinnovabili una volta. Una rivoluzione, impensabile ai tempi di Carlo Azeglio Ciampi, per non parlare dei predecessori. Eppure, oggi, sembrano passate ere geologiche dai quei fatti.

Ere geologiche sono in effetti trascorse nel sistema bancario italiano, se pensiamo al processo di fusione di Capitalia con Unicredit (in realtà un’incorporazione di Capitalia da parte di Unicredit), all'era di Cesare Geronzi in Mediobanca, ma soprattutto all'irresistibile scalata del dottor Koch ai piani alti della finanza italiana. Vediamo come si sviluppò l'ascesa di Geronzi, dall'Italia delle banche pubbliche al riassetto dopo le riforme degli anni '90. «Quando Guido Carli si dimise da governatore (1975) e il dottor Koch ebbe la definitiva certezza che i suoi amici Antonio Fazio e Lamberto Dini avrebbero fatto più carriera di lui, se ne andò con Rinaldo Ossola al Banco di Napoli», scrive Alberto Statera. «Dal Banco di Napoli il direttore generale della Banca d’Italia Mario Ercolani lo indirizzò alla Cassa di Risparmio di Roma di Remo Cacciafesta. Da dove è cominciata la sua scalata» (Sergio Rizzo). Un'ascesa che avvenne sia in verticale che in orizzontale, come racconta la sua biografia: in verticale, grazie a una notevole serie di acquisizioni e fusioni, favorite dal potere politico, al termine di ognuna delle quali Geronzi è sempre al vertice di una realtà sempre più vasta; in orizzontale, perché Geronzi, attraverso finanziamenti generosi in varie direzioni, costruisce una rete di complicità ed alleanze multi-direzionali. «La Cassa di Risparmio di Roma era una banca pubblica, piccola e neanche messa troppo bene. Fra i soci dell’istituto c’era tutta la nobiltà papalina, ma anche politici e imprenditori legati alla politica. Un salotto forse un po’ polveroso, che aveva il suo principale punto di riferimento nel leader della Dc romana, Giulio Andreotti. Ma che ben utilizzato poteva diventare un formidabile strumento di potere. E Geronzi (che allora qualcuno considerava appoggiato dai socialdemocratici) accettò di buon grado di diventare il simbolo di quel mondo andreottiano, punta di diamante di una sorprendente espansione nel mondo della finanza. Il sistema bancario era quasi tutto in mani pubbliche e l’unico modo per crescere era ovviamente comprare banche pubbliche, cioè controllate dalla politica. Il primo colpo fu l’acquisizione del Banco di Santo Spirito dall’Iri di Romano Prodi», racconta Sergio Rizzo. Questa acquisizione fu "una decisione imperiale, senza gara, al miglior offerente e senza neanche uno straccio di perizia", come denunciò Pietro Armani, vicepresidente dell’Iri. Ma il Banco di Santo Spirito fu solo il trampolino di lancio di una folgorante carriera. Leggiamo le eloquenti parole di Massimo Giannini: «L’ambizione di Geronzi è sempre stata quella di trasformarla, la sua banca. A costo di seminare nel fango. A metà degli anni 90 sfilò allo scalcagnato conte Auletta la disastrata Bna. A metà del 2002 (dopo aver acquisito anche Mediocredito centrale e Fineco - ndr) ha ingoiato Bipop e Banco di Sicilia, piene di sofferenze e buchi di bilancio, e ha dato vita finalmente al colosso bancario che aveva sempre sognato. Con Capitalia, Geronzi è riuscito a trasferire Piazzetta Cuccia a Via del Corso».

Per inquadrare meglio l'ascesa orizzontale di Geronzi, leggiamo Statera: «Di equilibrismi il dottor Koch ha vissuto tutta la vita. Nato con la politica da banchiere pubblico, ha prosperato con la politica da banchiere privato. Prima o seconda repubblica per lui “pari son”: da An alla Quercia, dagli amici del Manifesto a ForzaItalia». Continua Rizzo: dal momento che pecunia non olet, «tutti (o quasi) i partiti si abbeveravano alla Banca di Roma». Mentre le altre banche voltavano le spalle, a Silvio Berlusconi, il banchiere romano lanciò una scialuppa di salvataggio al leader di Forza Italia; e non esitò ad intervenire a fianco del PDS, esposto con l’istituto di Geronzi per 203 miliardi di lire nel '97. Forse il Nazareno nasce qui, in questo crogiuolo di interventi, a ben pensarci. Capitalia giunse addirittura ad essere il primo azionista della Lazio, ma aprì i rubinetti a tutti gli imprenditori più noti (Domenico Bonifaci, Giuseppe Ciarrapico, Sergio Cragnotti). Poi, però, l'Italia si risvegliò dal sonno della ragione, coi due crack più severi degli ultimi anni, quello della Cirio e quello della Parmalat.

Per la Parmalat, le accuse furono gravi: Capitalia avrebbe messo alle strette Calisto Tanzi, obbligandolo a rastrellare - a prezzo salatissimo - aziende gravemente indebitate con Capitalia, che ripianavano il loro debito con i soldi di Parmalat . Ma "il gioiellino" del latte entrò nel tunnel della crisi che l'avrebbe travolta (e, con essa, tanti ignari risparmiatori), proprio emettendo un bond. La sofferenza venne così scaricata sui risparmiatori, mentre la banca - che aveva piazzato il bond sul mercato - lucrava sulle commissioni e sugli interessi applicati ai soldi anticipati. Geronzi se la cavò con un'interdizione di due mesi, parlando di faccende di ordinaria amministrazione, ma la verità è che «senza la complicità interessata di Capitalia, Parmalat sarebbe fallita almeno un anno prima, con circa tre miliardi di euro di passivo in meno» (commentò il procuratore della Repubblica, Gerardo la Guardia). E il giudice di Bologna aggiunse anche che, a causa delle operazioni volute da Geronzi tra il 2000 e il 2003, il buco della Parmalat si era ingigantito più che in tutti i dieci anni precedenti. Senza entrare nei dettagli di altri casi (come il crac Italcase, inghiottita da un buco di 600 milioni di euro, da cui uscì assolto con formula piena), il 4 luglio 2011 Geronzi venne condannato in primo grado dal Tribunale di Roma a 4 anni di reclusione per concorso in bancarotta per la vicenda Cirio. 

Neanche ci vogliamo soffermare sul periodo in Mediobanca. Basterà una frase di Luigi Zingales per inchiodare il dottor Koch alle sue responsabilità: "Nei suoi undici mesi al comando Geronzi aveva fatto molto male, trasformando una delle più illustri imprese italiane in un caos". Un unico aneddoto: in un'intervista al Financial Times, il politico banchiere prospettò investimenti opposti a quelli annunciati dal management durante l'investor day, disorientando il mercato.

Ora vogliamo concludere questo secondo prequel delle vicissitudini del nostro sistema bancario, ricordando che nel 1995 la Banca di Roma di Geronzi acquisì la Banca Nazionale dell'Agricoltura, venduta cinque anni dopo all'Antonveneta a 1,5 volte il prezzo pagato. Perché si sa, ogni banchiere ha la sua storia, ma certi nomi ritornano, come nei corsi e ricorsi storici di Giambattista Vico.

Inoltre, il politico banchiere rimarrà nella storia tricolore per il geronzismo, ormai assunto a "categoria dello spirito" che "non ha mai smesso di aggirarsi nelle stanze del capitalismo nazionale" (Il Fatto Quotidiano).

Infine, chiudiamo il cerchio: a fine 2010, quasi alla vigilia del ribaltone, Geronzi volle creare un comitato scientifico della Fondazione a Trieste: la poltrona di presidente onorario venne assegnata all’ex governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio.

@CastigliMirella

Capitolo Quarto (I prequel). Il caso Antonveneta ai tempi di Fioroni e Fazio

Capitolo Quarto, il prequel. Il nome della banca Antonveneta, al centro del caso Mps e dell'ascesa/caduta di Mussari a Siena, non era nuovo alle cronache italiane. Si trattava dell'istituto nel mirino di un altro ex banchiere rampante, Gianpiero Fiorani, l'ex numero uno della Popolare di Lodi, collezionista di varie inchieste (che gli hanno totalizzato 5 anni complessivi di condanne), già protagonista indiscusso della storia delle scalate bancarie del 2005 che culminò nella condanna di Antonio Fazio, ex governatore di Bankitalia.

Nel caso Bancopoli, Fazio venne condannato nel processo sulla fallita scalata ad Antonveneta da parte della Banca Popolare di Lodi. La condanna venne confermata in via definitiva dalla Corte di Cassazione il 28 novembre 2012: Fazio è stato ritenuto colpevole per aver concorso nel manipolare il mercato a favore della Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani.

Ma andiamo con ordine. Tra il 2004 e il 2005 il sistema bancario italiano fu al centro di una serie di movimenti che coinvolgevano importanti gruppi stranieri, il cui obiettivo sembrava consistere nel prendere il controllo di alcune banche italiane. Sui giornali la politica cercava di opporsi a questi movimenti sventolando il consueto vessillo dell'italianità delle banche e delle aziende (quello che abbiamo visto che fine per altro ha fatto, in un altro settore, con il disastro Alitalia).

In particolare la Banca Antonveneta era nel mirino dell'olandese ABN Amro, mentre la spagnola Banco Bilbao Vizcaya Argentaria (BBVA) puntava alla Banca Nazionale del Lavoro (BNL). Nella primavera del 2005, le due banche italiane finiscono per diventare oggetto di interesse anche da parte di due altre banche italiane: la Banca Popolare di Lodi (BPL), poi Banca Popolare Italiana (BPI), con al vertice Gianpiero Fiorani, e Unipol, guidata da Giovanni Consorte.

ABN Amro e BPL lanceranno un’OPA su Antonveneta, mentre BBVA e Unipol annunciano un’offerta pubblica di acquisto su BNL. Sebbene siano fallite tutte e quattro, le scalate finiscono per accendere un faro su un sottobosco inquietante. Le inchieste riveleranno una serie di intrecci, “patti di sindacato occulti” (è l'estate dei "furbetti del quartierino"), di accelerazioni/rallentamenti nel rilasciare le autorizzazioni da parte di Bankitalia ed altri mirabolanti fatti, di cui prenderemo in esame solo alcuni, per non tediare i nostri venticinque lettori.

La procura dichiarò che erano state usate anche Fake News (all'epoca si chiamavano solo "bufale" o notizie false) per variare il prezzo delle azioni di Antonveneta e mettere i bastoni fra le ruote dell’OPA di ABN Amro, mentre imprenditori bresciani (fra cui il finanziere Emilio Gnutti insieme a diciotto imprenditori bresciani suoi amici) vennero indagati per reato di aggiotaggio. Si scoprì che erano stati finanziati dalla BNL per aggiudicarsi azioni Antonveneta per conto di Fiorani.

Di tutta quella vicenda, complicata, ma ricca di aneddoti, ma anche di bufale, rimarranno memorabili intercettazioni telefoniche come quella tra Fazio e Fiorani , in cui l’allora governatore della Banca d’Italia, prima di annunciarla ai mercati, confida privatamente a Fiorani l'ok alla sua OPA su Antonveneta, ricevendo in cambio “un bacio in fronte”, quasi un sigillo a conferma del loro rapporto confidenziale. Fiorani (sei mesi di detenzione e poco più di due anni di affidamento ai servizi sociali) ha chiuso i conti con la giustizia italiana, oggi fa un altro mestiere. Però la vicenda è utile per ripercorrere il caso Antonveneta, prima che il nome della banca tornasse in auge nell'odissea di Mps. Infatti, come abbiamo visto ieri nel Terzo Capitolo, Mps - che già aveva consumato la maggior parte dell'eccesso del suo capitale per acquisire Banca121 - deciderà di comprare Banca Antonveneta nel novembre 2007, quando è già emersa la crisi dei mutui Usa. E l'allora banchiere Mussari arriva alla scalata, sborsando al Banco Santander una cifra astronomica: 9 miliardi di euro in contanti, che obbliga la Fondazione Mps a svenarsi con un assegno da 3,4 miliardi; ma poiché i soldi non sono ancora sufficienti, Mps tira fuori dal cilindro "un bond convertibile (Fresh) che sarà foriero di altre perdite, instabilità e condanne giudiziarie". Insomma, l'acquisizione porterà il glorioso Monte dei Paschi a chiedere l'aiuto dell'Italia nel momento peggiore della crisi dei debiti sovrani e poi a costringere il Paese, prostrato da nove anni di crisi economica e finanziaria, a nuovi interventi statali in tempi recenti.

@CastigliMirella

martedì 16 maggio 2017

Terzo Capitolo. La saga delle quattro banche e delle venete

Terzo Capitolo. Non stupì nessuno il voto compatto di PD e Forza Italia (tranne rare eccezioni) a favore del Bail in, che seguiva l'approvazione del pareggio di bilancio in Costituzione. A livello europeo, il sì aveva accomunato il PPE, insieme a Forza Italia, ai socialisti europei, Pd compreso: il Brrd - Bank recovery and resolution dirictive - fu approvata il 15 aprile 2014 su mozione dello svedese Gunnar Mokmark. Ma non arrivò come fulmine a ciel sereno, bensì partorita dopo lunghi anni di discussioni con 584 voti favorevoli, 80 contrari e 10 astensioni al Parlamento europeo. Ma gli italiani se ne accorsero con il caso delle quattro banche, anche se il bailin veniva recepito dall’11 settembre 2015, per la precisione, attraverso un decreto attuativo della direttiva europea votata dal parlamento europeo il 23 aprile 2014.

Non sappiamo dove fossero nel 2011 il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco (che poi ha sostenuto la necessità dell'intervento pubblico), il presidente dell'Abi (che ha definito il bail-in incostituzionale) e Giuseppe Vegas (anche lui acerrimo nemico della pratica, a parole sue), ma nel novembre di quell'anno, con lo spread quasi a 600, entra in carica il governo Monti, per salvare l'Italia, dopo l'ennesima finanziaria di Tremonti e gli irritanti risolini di Merkel-Sarkozy a una dichiarazione di Berlusconi. Il professor Mario Monti, in loden, anche ministro dell'Economia, deve salvare l'Italia: con il Paese sull'orlo del baratro, vota il Fiscal Compact (Monti poi dirà che non fu una buona idea, ma che il Paese sarebbe stato massacrato sui mercati se fosse stato l'unico a rifiutare) e il resto. Bankitalia e governo hanno partecipato alle trattative sulla Brrd e l’hanno approvata. Pure in Parlamento piangono in molti, ma quasi tutti hanno votato, salvo poi definire il bail-in "un prelievo forzoso" per i correntisti (Forza Italia) e via dicendo. Ma che cosa significa? "In sostanza dal 1° gennaio 2016 i problemi degli istituti di credito andranno risolti dall'interno, non con interventi esterni, anche ricorrendo ai depositi superiori ai 100mila euro, oltre che agli azionisti e agli obbligazionisti meno assicurati" scrive Il Sole 24 Ore.

Dal 2008 al 2015, mezza Europa era ricorsa all'impiego di fondi pubblici per aiutare le proprie banche: 239 miliardi la granitica Germania, oltre 162 il Regno Unito dell'Austerity, più di 52 la Spagna, 42 l'Irlanda, 40 la Grecia, 36 i Paesi Bassi, 28 l' Austria, tanto per citare i casi principali. L'Italia in un primo tempo si fermò a un miliardo (il conto poi è salito a 20 miliardi di aumento di debito pubblico, con il Salvarisparmio del governo Gentiloni), in gran parte perché aveva giù un enorme rapporto debito/PIL, in parte adducendo come giustificazione la mirabolante stabilità del sistema bancario italiano. Stabilità inficiata dal caso Mps, che però era apparsa come un inciampo di percorso, un caso di spregiudicato utilizzo dei derivati e di malsano intreccio fra banca e territorio. Insomma, un neo, niente di più. Ma qualcosa ribolliva sotto le ceneri.

Il Paziente Zero della crisi fu Banca Etruria. Un piccolo istituto nato nel 1882 nella provincia orafa di Arezzo, vittima dell'allegra finanza (fra consorterie locali - anche in versione massonica, essendo Arezzo la città in cui è vissuto sereno Licio Gelli -, controlli collusi o impotenti, politica interessata o distratta), il 22 novembre 2015, si vede azzerare il capitale dei propri azionisti e 788 milioni di obbligazionisti subordinati. Insieme a Banca Etruria ci sono Banca Marche, Carichieti e Cariferrara. Secondo Bankitalia, rappresentano "solo l'1% degli attivi bancari italiani". Ma le cifre non dicono tutto: quelle 4 banche raccontano "una storia italiana". Una piccola crisi genera un tracollo. "Due anni di patimenti e 6 miliardi di euro, versati dagli istituti concorrenti per tamponare la falla fino alla vendita attuale senza corrispettivo" scrive La Repubblica.

Ma cos'era Banca Etruria, divenuta simbolo degli intrecci malsani? Dominata per un trentennio dal presidente massone Elio Faralli, che lasciò nel 2012 a 87 anni, era l'emblema del "sommo intreccio di poteri cattolico-agricoli e laico-massonici" (sempre La Repubblica). Alla "banca dell'oro" Fitch assegna un credito BB+ (a livello "spazzatura") nel 2012, a causa delle sofferenze giunte "a un livello doppio rispetto alla media del sistema". Fra i beneficiari spiccano: il gruppo Sacci, azienda cementiera esposta per 70 milioni; l'Acqua Marcia di Francesco Bellavista Caltagirone (60 milioni); il cantiere Privilege Yard, che doveva costruire un lussuoso panfilo da 127 metri, di cui fu realizzato solo il modellino; il gruppo Uno a erre (10,6 milioni); l'immobiliare Cardinal Grimaldi (11,8 milioni). Con il beneplacito della Consob, Banca Etruria emette bond subordinati per 120 milioni di euro che vengono rifilati alla clientela minuta, ignara di ciò che sta acquistando. Sono state truffate persone che non avevano la necessaria educazione finanziaria per comprendere cosa stessero sottoscrivendo. Verranno azzerati dal bail in. Tramite ambienti del governo si era presa in considerazione la via della cessione: quella a Unicredit di cui si parla nel libro di de Bortoli, un abboccamento tra Arezzo e il fondo del Qatar, l'ipotesi Bper del ministro Delrio. Perfino era stata ventilata la fusione con la popolare di Vicenza (altro caso disperato): sarebbe stata caldeggiata da Bankitalia, ma se fosse andata in porto, sarebbe stato un fallimento da prima pagina. Eppure "i vertici di Arezzo furono cacciati e sanzionati per non avere fatto la fusione con la popolare veneta", riporta Il Fatto. Concludiamo questa breve rassegna, con le parole di Massimo Giannini su Repubblica: "Non è colpa solo della Grande Recessione, se l'Italia con il suo bel 18% di crediti deteriorati lordi rispetto agli impieghi resta la maglia nera d'Europa. Se dopo 30 miliardi di ricapitalizzazioni dilapidate solo per quella "sporca dozzina" di istituti, e dopo uno "scudo" da 20 miliardi creato a fine 2016, gli analisti stimano un ulteriore fabbisogno di capitali tra 40 e 55 miliardi. Oggi le banche "salvate" sono ancora "sommerse". Vuol dire che nella politica qualcosa non ha funzionato. Solo nel "triangolo delle Bermude" Mps-Popolare Vicenza-Veneto Banca sono scomparsi 65 miliardi di depositi in 5 anni, e un milione e mezzo di risparmiatori ci ha rimesso quasi 15 miliardi. Certo, i 'furbetti del credito' hanno anche rubato. Ma i controllori non hanno controllato". No, non è colpa solo della Grande Recessione.

Se Intesa San Paolo non ha la pancia piena di Npl, non è per astrusi motivi, ma perché è una banca ben gestita ed è risultata la migliore d’Europa negli ultimi stress test. Il problema di Monte dei Paschi, la Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Banca Marche, Banca Etruria è da attribuire - lo ripetiamo - a "un rapporto malsano con il territorio da cui provengono, con una redditività da far spavento, con decine di migliaia di soci nonostante non producano uno straccio di utile da anni". Dobbiamo ricordare la parabola di Giovanni Berneschi (ex presidente di Carige appena condannato a 8 anni e 2 mesi, già indagato nel 2006 per l'appoggio dato a Consorte e Fiorani nella scalata su Antonveneta)? E il caso Zonin? L'ex re del Prosecco ha bruciato in un triennio 6,2 miliardi di valore, lasciando carta straccia in mano a 118 mila poveri azionisti. La Veneto Banca del ragionier Vincenzo Consoli ne ha bruciati 5, riducendo sul lastrico 90 mila risparmiatori. Dal 2013 si sono volatilizzati depositi per 11 miliardi a Vicenza, per 4 miliardi a Montebelluna. Anche per le venete si delinea il "Comma 22" con Bce e Ue. Atlante alza le mani, ma noi stiamo a parlare delle bugie dette in Parlamento. Per carità: le bugie di una ministra vanno sanzionate. Ma forse i malefici intrecci arrivano da ben più lontano. E sono tipiche, brutte storie italiane. Più gravi di eventuali mancate verità.

@CastigliMirella

Capitolo Due. Il caso Mps e quel retrogusto amaro di déjà vu

Capitolo Due. Quante volte ci hanno detto - giurato e spergiurato - che il sistema bancario era solido e che le eventuali criticità erano in via di risoluzione? Non le contiamo più. Nel 2010 il banchiere Mussari, la cui folgorante ascesa a Mps aveva galvanizzato l'intera Siena, spiegava a Il Foglio perché fosse più tremontiano del ministro dell'economia Giulio Tremonti: perbacco, all'epoca condivideva l'accorato appello del braccio destro del presidente del Consiglio Berlusconi a regole etiche nel sistema finanziario internazionale e le filippiche del ministro ai ringalluzziti bonus dei banchieri. Ma chi era Mussari e come avvenne la sua resistibile ascesa nel mondo bancario italiano? Presidente della Fondazione Monte Paschi a 39 anni, presidente della banca senese a 44, presidente dell’Associazione bancaria italiana (Abi) a 48, nel 2010 non avrebbe mai immaginato che a 50 sarebbe finito nella polvere. «Faccia da cow boy buono» (Alberto Statera), l'Alain Delon (copyright di Stefano Cingolani), il ragazzo tosco-calabrese, eskimo - kefiah - capello lungo (Stefano Feltri), si fece le ossa nella Fgci toscana, poi nelle cooperative, il classico cursus honorum di sinistra, per avere il colpo di fortuna nel 2001, quando iniziò la carriera di Banchiere Per Caso: Piccini - sindaco di Siena dal 1990 al 2001 - scelse Mussari come membro della Fondazione Monte Paschi, che con il 60% delle azioni controllava la banca, e Mussari scalò la presidenza, soffiando la poltrona proprio a Piccini, scaricato da D’Alema e dal partito. Senza alcuna nozione di finanza, senza parlare una parola d'inglese, munito dello stesso know-how di un correntista medio, con in tasca una laurea in Legge (ma vantava la presenza alla festa di laurea del potente rettore dell'Ateneo, ed ex ministro, Luigi Berlinguer), Mussari si avviava verso la sua conversione in banchiere. Mps era ancora shockata dalla cura De Bustis, il banchiere che nel 1999 aveva messo in pancia a Siena la Banca del Salento (ribattezzata Banca 121), zeppa di derivati e prodotti tossici dai nomi hollywoodiani (MyWay, 4You, Visione Europa).

Nel 2010, all'apice della carriera all'Abi, Mussari parlava del mestiere nobile della banca, un mestiere utile alla collettività, con Tremonti convergeva su rimbrotti contro le speculazioni, la ludopatia dei Cds, si sgolava per chiedere regole - limiti - niente di meno che la prigione-per-chi-sbaglia, perché “la mano invisibile poteva andare bene per il macellaio ma non per l’hedge-fund". Eppure l'epopea della sua ascesa si era svolta un po' diversamente.

Quando Mussari arrivò a Mps, la banca senese, detta Babbo-Monte o «la mucchina» (che, fino al 2010, elargiva oltre cento milioni di euro l’anno per il Comune e la Provincia, l’Arci comunista e la democristiana Libertas, le contrade e le parrocchie) valeva 3 miliardi e 330 milioni. Un miliardo in più della Compagnia Sanpaolo di Torino. Stretto fra l’ambizione di crescere e il terrore di essere scalati, gli balenò l’idea di acquisire banca Antonveneta. Divenuto il dominus di Siena («in città non si muove foglia senza il suo parere», secondo Feltri), forte dei suoi molteplici legami («Comunione e liberazione, Opus Dei e sussurri lo vedono vicino alla Massoneria», scriveva Statera) e soprattutto di un maxi finanziamento pari a 673 mila euro in dieci anni a Ds e poi al Pd (fonte: Giorgio Meletti), Mussari va alla conquista di Antonveneta. Ma questa scalata sarà la pietra tombale della sua carriera e - purtroppo - il macigno che affosserà una prima volta Mps, la banca più antica del mondo: l'acquisizione da 9 miliardi di euro (Emilio Botin, presidente del Santander, disse che tutte le trattative avvennero solo telefonicamente), a un prezzo stratosferico persino per l'epoca, avveniva nel 2007, alla vigilia del crollo di Lehman Brothers (vedi "Capitolo Uno" della trilogia sulle banche). Più che una gloriosa galoppata verso l'età aurea, una disastrosa crociata a cavallo di un acciaccato Ronzinante. Il resto è storia. L’Ad Fabrizio Viola e il presidente, Alessandro Profumo (passato nel frattempo a Mps, quando Mussari è nominato ai vertici dell'Abi), scoprivano solo il 10 ottobre 2012 un contratto segreto, risalente al luglio 2009, con la banca giapponese Nomura relativo al derivato Alexandria. Una bomba ad orologeria (e non era l'unica sorpresa fra l'altro): Giuseppe Mussari aveva truccato i conti con un’operazione di ristrutturazione del debito per centinaia di milioni di euro. Scrisse Il Fatto Quotidiano: "Due operazioni apparentemente slegate tra loro in realtà erano connesse proprio dal contratto segreto e l’una era il rimborso dell’altra. La prima operazione permetteva a Mps di scaricare su Nomura la perdita di Alexandria e così di abbellire il bilancio 2009. La seconda 'rimborsava' i giapponesi in quanto, come si dice nella telefonata (ndr, quella registrata all'insaputa di Mussari e sventolata da Nomura agli ignari capi di Rocca Salimbeni), il Monte Paschi 'entrerà in un asset swap e due operazioni pronti contro termine a 30 anni legate a tale swap'". Era l'inizio di un incubo, insomma. Ma nel 2010, come scrivevamo in principio, la resistibile ascesa di Mussari lo aveva portato sullo scranno dell'Abi, la Confindustria delle banche. Statera scrisse con la consueta maestria: «Nonostante i disastri evidenti e il vulnus reputazionale, Mussari viene eletto presidente della potente Associazione bancaria, pare con scarse opposizioni, tra le quali – a quel che si disse – quella del presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli». Ma il suo piglio aggressivo riscuoteva successo: costruiva polemiche con il governo Monti sulle commissioni ed attaccava frontalmente l’Eba dopo lo stress test di fine 2011. Nell’estate 2012 la riconferma, mentre la procura di Siena avviava un’inchiesta in sordina per una serie di presunti reati, sia precedenti che successivi all’acquisto di Antonveneta, che deflagrò in tutto il Paese il 22 gennaio 2013, quando il Fatto Quotidiano riportò in prima pagina un titolo a quattro colonne: «Mps, i conti truccati e il contratto nascosto». Un giallo finanziario che pareva rubato a un best-seller di John Grisham, e che si concludeva all'italiana: 3,9 miliardi di euro sui bilanci dello Stato italiano, per sottoscrivere i Monti-bond con i quali Mps avrebbe fatto fronte alle sue perdite. Mussari, che da presidente dell'Abi riecheggiava le tesi tremontiane (le sparate contro la finanziarizzazione dell’economia, con l’attività bancaria sempre più dipendente dai mercati finanziari), da banchiere aveva sfruttato i derivati fantasma per 'abbellire il bilancio' della banca senese, accettando però di rilevare da Nomura anche derivati in perdita per centinaia di milioni nel bilancio 2012. Con un’operazione di scambio di titoli («asset swap»), Monte Paschi ottenne titoli di stato italiani, 3 miliardi di Btp a trent’anni, spostando così il rischio in portafoglio da un «rischio corporate» a un «rischio sovrano». Una nemesi degna di una tragedia greca: Mussari, il banchiere a digiuno di inglese e di derivati, divenne il cavallo di Troia della finanziarizzazione. E - ciliegina sulla torta - alla vigilia della crisi dei debiti sovrani. La brusca impennata dello spread tra i titoli decennali italiani e gli omologhi tedeschi dell’estate 2011, fino al picco di 575 punti base di novembre, dapprima ridusse i margini di guadagno dell'operazione con Nomura; ma non finiva qui, perché, nello stesso periodo, l'imposizione dell'European banking authority (Eba) alle banche europee di svalutare i titoli sovrani in portafoglio, penalizzò gli istituti italiani e spagnoli, in particolare quelli stra-carichi di bond delle rispettive nazioni come Mps. Il buco sembrava stratosferico. Mussari, la sera dello scoop del Fatto, presentò la lettera di dimissioni da presidente dell’Abi, ma quello che lasciò basito il Paese fu l'atteggiamento della classe dirigente, accompagnato dalla caduta dalle nuvole di Bankitalia, Vigilanza, Consob, revisori. Estinti i contratti derivati (Alexandria con Nomura e Santorini con Deutsche Bank), quelli che accettavano "un baratto tra spazzatura e oro", a febbraio 2013, Mps riscrisse a bilancio perdite di ulteriori 700 milioni, ma niente di paragonabile ai 14 miliardi ipotizzati in un primo momento: grazie ai Monti Bond sarebbe stata sopportabile, se non si fosse verificata la fuga dei correntisti. Il panico, generato anche dalle bercia di Grillo in piazza e dalle supposizioni di buchi neri e tangenti sui media, aveva provocato una fuga di 11 miliardi prelevati dai depositi in un trimestre. Il 6 marzo, con un volo da dieci metri di altezza, si schiantava David Rossi, direttore della Comunicazione e Marketing Mps, su un vicolo all’interno del comprensorio di Rocca Salimbeni. Sebbene sia stata scartata l'ipotesi dell'omicidio, la città di Siena usciva a pezzi dalla vicenda Mps.

Nessuna tangente né alcun “vantaggio personale" sono emersi dall'inchiesta sull'acquisizione di Antonveneta. Mussari ne è uscito innocente, anzi, il suo avvocato lo ha definito una vittima. Sarà. Ma gli Zonin, i Mussari, i Consoli hanno lasciato strascichi immensi: quelli che elargiscono mutui e finanziamenti agli amici o agli amici degli amici, o a chi sottoscrive obbligazioni subordinate della loro banca, hanno terrorizzato i correntisti italiani. Concludiamo il "Secondo Capitolo" con un ottimo spunto da Linkiesta: "Monte Dei Paschi, la Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Banca Marche, Banca Etruria, accomunati da un rapporto malsano con il territorio da cui provengono, con una redditività da far spavento, con decine di migliaia di soci nonostante non producano uno straccio di utile da anni. Domanda innocente: è la recessione che ha prodotto una simile distorsione nel sistema bancario, o è un pezzo del sistema bancario, quello che non sa selezionare chi merita o non merita il credito, uno dei principali freni alla ripresa del Paese?". Altro che Bail-In, la genesi di tutto è la Banalità del Male: l'assenza, sistematica, di meritocrazia nel Paese.

@CastigliMirella

Capitolo Uno. Niente Panico al TG1

Capitolo Uno. Tutto iniziò con una versione italiana dell'inglese Don't panic al TG1. Niente Panico, siamo italiani, sembrava dire il telegiornale nazional-popoplare, diretto da Riotta, poche ore dopo il fallimento di Lehman Brothers. Gli italiani cenavano, con lo sguardo rapito dagli scatoloni di quei ragazzi che, fino a 72 ore prima, erano golden boys della finanza globale, all'improvviso catapultati nella disoccupazione di quella che sarebbe diventata la Grande Crisi dopo il '29. Niente panico, state fermi, le solite frasi fatte da TG1. Ma già a marzo 2009 Piazza Affari aveva patito più delle altre borse europee. Sullo sfondo s'intravedevano le preoccupazioni sui titoli bancari italiani. L'uragano si abbatteva su Unicredit, Intesa Sanpaolo e Banco Popolare. Per infondere liquidità, ad ottobre, fra il gruppo di Profumo e Bankitalia avveniva uno swap di titoli di stato per 1,9 miliardi di euro, operazione che ricadeva nel piano di misure anti-crisi proposta dal governo. Stessa musica per Intesa e Monte dei Paschi di Siena. Anche in questo caso, il mercato - volatile come non mai - bocciava le misure adottate al fine di garantire contanti alle banche. Piazza Cordusio varava un aumento di capitale nell’ordine di 3 miliardi di euro, pur contando sui Tremonti Bond per altri 3 miliardi e sugli aiuti a Bank of Austria per 4,5 miliardi. Ma a pesare era la quantità di derivati su cui era esposto il gruppo verso l’Est Europa, mentre nessuno sembrava considerare più improbabile un default di Paesi quali Polonia, Lettonia ed Ucraina, la cui situazione all'epoca metteva i brividi agli investitori. E questa era la situazione del biennio 2008-2009, allo scoppio della crisi dei subprime e alla vigilia della recessione occidentale. Quella che avrebbe portato al credit crunch, alla crisi dei Debiti Sovrani, alle mega sofferenze delle banche italiane. Riportando le lancette dell'orologio indietro di quasi 9 anni, forse, il TG1 non avrebbe aperto l'edizione delle 20.00 invitando gli italiani a non farsi prendere dal panico. Tornando indietro, il bravo giornalista economico ci avrebbe forse sollecitato ad allacciare le cinture di sicurezza. Il peggio non era affatto alle spalle, ma dietro la porta.

Mirella Castigli @CastigliMirella

lunedì 1 maggio 2017

Aspettando un taglio decisivo delle tasse sul lavoro.

Maestrine e cassandre, coi loro post pieni di livore, torneranno presto alla carica. Ma questo non è il punto: sono quelli che tifano da sempre per lo sfascio, solo per apostrofarti con "hai visto che avevo ragione?" quando li incontri al bar. Niente di nuovo sotto il sole: per loro il 40% era troppo poco, 2 milioni sono meno di niente, mai però che si pongano serie domande sul debito, sul deficit, sulla doppia velocità fra Nord e Sud Europa, sulle riforme, sulla disoccupazione, sui Neet, su una scuola che - quando funziona - si limita a premiare il conformismo, espellendo chi inventerà la prossima startup o portando i migliori ad emigrare. Dunque, mai sedersi sugli allori (che non ci sono, ma siamo seduti solo su una montagna di debiti, azzoppato il riformismo del 4 dicembre). Ora bisogna rimboccarsi le maniche: va votata una buona legge elettorale, va seguito da vicino Macron, sostenuto l'Europa - baluardo contro i fascismi -, va trovata una via per aumentare la produttività dei lavoratori, migliorare la competitività del Paese, fare le liberalizzazioni, velocizzare la giustizia, portare la meritocrazia nella PA e nella scuola, rendere la PA digitale a portata di apps mobili, sburocratizzando e liberando le energie utili alla ripresa. Il resto è fuffa.

martedì 28 febbraio 2017

L'elefante in cristalleria.

Nel 2008 a suonare il campanello d'allarme fu Northern Rock, il quinto istituto di credito del Regno Unito che fino all’autunno del 2007 aveva dato l'impressione di essere una banca solidissima. Poi i correntisti avevano iniziato ad accalcarsi agli sportelli della banca chiedendo di ritirare il proprio denaro. File interminabili riprese dai media. Una corsa che non accadeva dall'Ottocento. A dare la sveglia a Wall Street fu però il successivo fallimento di Lehman Brothers, uno dei crack più pesanti della storia finanziaria degli Stati Uniti, quello che ha sconquassato l’economia di tutto il mondo. Se il 2008 è stato lo tsunami della finanza, il 2016 passerà alla storia - con Brexit e Trump - come il 2008 della politica. Ma questa dorme fra due guanciali e sembra ignorare l'elefante nella cristalleria.

@CastigliMirella

domenica 5 febbraio 2017

Euro a due velocità, la nostra condanna a morte definitiva.

Diciannove miliardi di flessibilità, la crescita che arranca allo 0,8%, la metà della media Ue, e il debito che corre al 134% del PIL, il doppio del parametro dei Trattati. La produttività è salita a stento di un modesto 4% dal 2000 ad oggi, contro il 19,2% della Germania e il 25,2% della Francia. Già, nei fatti, l'Italia non sta in business class, ma nel gruppo di coda dei Paesi del Club Med che viaggiano low-cost. Con la vittoria del NO, la Germania ha capito che neanche vogliamo provarci: neanche vogliamo fare la fatica per appianare le due velocità che si trascinano dai tempi di Maastricht, febbraio 1992. Ma l'euro a due velocità ci condannerebbe all'irrilevanza definitiva.

lunedì 16 gennaio 2017

Ubriachi a Bruxelles.

Abbiamo imprenditori del calibro di Del Vecchio, Brembo e De' Longhi, tanto per citarne solo tre che il mondo ci invidia. Potremmo essere un Paese autorevole, quasi al livello della Francia, se solo avessimo scuole migliori (e non le troppe fabbriche di Neet e Di Maio), istituzioni più solide (e invece ci tocca rivotare per le province! E dare il gettone a quelli del Cnel!), una giustizia civile veloce, una digitalizzazione/ sburocratizzazione avviata. Anch'io sono convinta che non si debba cedere al pessimismo. Ma oggi, fra le richieste di Bruxelles e le frizioni di Berlino su FCA, l'Europa sembra in mano ad ubriachi, mentre Trump e Putin gongolano. Cui prodest, cara UE?