martedì 11 gennaio 2011

Perché - obtorto collo- è comunque meglio il Referendum di Fiat rispetto alla ricetta pratese

Sia che siate d'accordo con il pragmatismo della prima donna a capo della Cgil, Susanna Camusso, sia che siate avversari della sua linea, su una cosa bisogna darle ragione: "Se vince il sì, dobbiamo stare nelle fabbriche, altrimenti si apre un vuoto". Ma ha anche ragione Matteo Renzi quando dice di essere per Marchionne e chiede ai sindacati: "Meno ideologia". E il Pd che invita in ogni caso a "rispettare l'esito del referendum". Sia che pensiate che più che un Referendum quello in Fiat sia un "ricatto" (non mi pronuncio, certo il confine è labile a volte...), voglio fare un paragone, un po' ardito ma che spiega meglio di tante chiacchiere cosa rischia il Paese se non fa riforme. Il caso Prato.

Come è ormai noto, il distretto pratese è stato usato come laboratorio europeo per l'inserimento degli imprenditori stranieri, soprattutto cinesi. Il bel libro di Silvia Pieraccini, «L'assedio cinese. Il distretto parallelo del pronto moda di Prato» (Il Sole 24 Ore editore), che ha scandagliato i dati che i pratesi hanno vissuto sulla loro viva pelle dagli anni '90, dovrebbe essere il manuale della Fiom.

Ecco i numeri dell'esperimento cinese a Prato: "Le aziende che fanno capo a imprenditori con gli occhi a mandorla a fine 2007 erano 3.528 (+17% sul 2006), di cui 2.440 nel comparto delle confezioni e 215 in quello tessile. A Prato, un'azienda ogni otto parla cinese (12,5%). Queste imprese hanno un turnover del 60% contro il 15,7% delle italiane (cioè muoiono e rinascono velocemente). Il loro giro d'affari è di 1,8 miliardi, ma un miliardo viene realizzato in nero. L'export è il 70% del fatturato, perchè il pronto moda cinese di Prato rifornisce buona parte dell'Europa. Solo nel 2007, i cinesi di Prato hanno inviato in patria 384 milioni di euro attraverso i money transfer: più di un milione al giorno. Sono 360 milioni i capi d'abbigliamento che questo distretto parallelo sforna ogni anno. Senza avere punti di contatto con il tradizionale distretto italiano. Nessun lavoratore cinese è iscritto al sindacato".

Adesso torniamo al "Referendum di Marchionne": siamo sicuri che sia un ricatto? O non è piuttosto l'effettiva apertura degli occhi agli italiani sulla crescita dei Bric (Brasile- Russia- India-Cina)? Non è piuttosto la definitiva presa di coscienza (in maniera traumatica: perché il governo ci ha raccontato la favola "del paese delle meraviglie" mentre l'Italia perdeva rilevanza e quote di mercato, se non interi segmenti di mercato, nel mondo) che "o si cambia o si muore"?

Marchionne avrebbe bisogno di un ghost writer per evitare gaffes: su questo non ci sono dubbi. Ma in fondo ha solo aperto gli occhi agli italiani e ai Sindacati (anche quelli recalcitranti che finora hanno finto di vivere in un mondo parallelo) che Prato dista circa 300 KM da Torino. La Cina è più vicina di quanto si pensi. Non è così difficile fare la "fine" di Prato, ex punta di diamante negli anni '80 dei distretti ricchi e rampanti, oggi ridimensionata.

Ecco Prato è stata messa a dieta di varie taglie. E gli operai pratesi non hanno potuto votare a nessun Referendum. Non hanno subìto alcun ricatto ma neanche hanno avuto la possibilità di salvare il salvabile. Hanno solo visto sparire le loro fabbriche, un po' alla spicciolata, delocalizzate a Est, finché non si sono ritrovati in un distretto fantasma.

Chi quotidianamente combatte per riuscire a competere sui mercati internazionali, sa che non è una passeggiata. Ma se serve una cura (il Toyotismo è una ricetta che ha vari pregi), a volte è meglio provarla prima di dire che è sbagliata. Anche perché Prato insegna: il denaro accumulato deve essere reinvestito, invece è quando il capitale fugge all'estero, è lì che inizia la tragedia.

Insomma: la Fiat vuole assomigliare alla giapponese Toyota, prima della classe, e non alla triste Foxconn. Ma se la Fiat fugge all'estero, a vincere rischia di essere proprio "il modello Prato con le sue picccolissime Foxconn, il Far West del capitalismo selvaggio". Ora spetta solo agli operai Fiat capire cosa va meglio per se stessi e i propri figli. Per i pratesi cercare una riconversione è costata carissima sul piano economico, politico e sociale. Forse dovrebbero parlarsi di più il sindacato pratese del tessile e la Fiom di Torino, per evitare di ricadere in certi (storici ma inesorabili) errori.

A volte è meglio cambiare visione e paradigma prima di naufragare. Poi, certo, qualcuno dovrà governare questa globalizzazione (spietata? malgestita?) che erode salari, diritti e che non è rispettosadella proprietà intellettuale. Ma qui si apre un altro capitolo.

M.C.

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